Correre su strada, spiaggia e deserto!

 

 

 

 

Venerdì, Marzo 29, 2024

Alla TransMauritania con Piergiorgio Scaramelli

 

Siamo di nuovo qui per vivere insieme un'altra avventura nel deserto; questa volta in quello pietroso e non troppo movimentato ma sempre suggestivo della Mauritania, il deserto dell'Adrar, grazie alla "TransMauritienne Adrar Desert Active" di circa 323 chilometri di corsa a piedi attraverso territori incontaminati o appena conosciuti con partenza dalla cittadina di Oudane ed arrivo in quella più grande di Atar passando per la meravigliosa città di Chinguetti.

 

Vi ricordate il "Selvaggio" della "Marathon des Sables" (e cioè il sottoscritto)? Ora è diventato il "Selvaggio Africano": eh si perché dopo la maratona delle sabbie ho lasciato l'Italia, e con bagagli e scarpette mi sono trasferito definitivamente in Africa, nell'isola di Boa Vista, una delle dodici isole che formano l'arcipelago di Capo Verde, a circa cinquecento chilometri dalla costa del Senegal. L'isola di Boa Vista è stata scelta per la bellezza naturale, per la ricchezza di fauna marina (tartarughe, balene, delfini, squali) per la ricchezza spirituale e la serenità degli abitanti creoli e perché - caso strano - è desertica: un deserto nel cuore dell'Atlantico!

Quindi dividerò questa mia esperienza in tre parti perché uno possa rendersi meglio conto di cosa comporti ed incida, una scelta così radicale di cambiamento di vita, anche per quanto riguarda la partecipazione ad eventi sportivi internazionali che prevedano degli spostamenti, normali e tranquilli quando sono dall'Europa, problematici quando vengono effettuati dall'Africa, pur essendo, in termini di distanza, più vicini. Praticamente questa mia partecipazione ha comportato la realizzazione di ben tre ultramaratone: una per arrivare allo striscione di partenza in Mauritania, un'altra la corsa vera e propria e l'ultima il ritorno a Boa Vista! Tre al prezzo di sei!

Parte prima: il viaggio di avvicinamento

In questo momento credo che la pista del cammino della mia vita sia costellato di "gechi ed iguane" ossia dalla fortuna: rifacendomi al titolo del libro di Bruce Chatwin "La via dei Canti" chiamerei questa mia avventura in Mauritania ma anche in Capo Verde e Senegal (i paesi attraversati) "La via della fortuna".

L'ultramaratona parte il 29 novembre 1999; il ritrovo dei partecipanti è fissato per il 27 nella cittadina mauritana di Atar. Per essere lì in quella data sono costretto a partire da Boa Vista il 23.

Parto da casa (abito con due piccoli gechi) con zaino in spalla e piccola valigia e vado al piccolo aeroporto dove ritrovo altri amici, quelli del nostro gruppo sportivo di fresca formazione il "Boa Vista Marathon Club", che hanno condiviso con me lunghe sgroppate per ore sulle bianche e calde dune del deserto di Boa Vista. Scambio di salutoni e vari in bocca in lupo e via con il leggiadro aereo della Cabo Verde Airline alla volta dell'altra isola capoverdiana di Sal e poi successivamente con altro aereo alla capitale di Capo Verde, Praia, nell'isola di Santiago.

Arrivo a Praia, città molto movimentata ma non caotica, nel platò (vecchio centro cittadino: si vive in tranquillità assoluta); faccio uno spuntino all'Aquarium - un localino lungo la Rua Serpa Pinto, dove mangi bene con prezzi modici, accarezzato dalle note della Morna, e dove puoi ammirare le tartarughe di mare che si contendono il poco spazio esistente nell'acquario. La ragazzina che serve nel locale, Carla Ivone, piccola, dalle movenze graziose, dispensa sorrisi a destra e sinistra, ma dentro di sé chissà cosa pensa. Provo a chiedere: la sua aspirazione è quella di lasciare quanto prima il lavoro, ad esso costretta dalla precaria situazione economica della famiglia, e continuare a studiare e poter frequentare poi l'università in Lisboa o in Brasile. Trovare un lavoro all'altezza per aiutare meglio la sua famiglia e nel contempo realizzarsi come persona e girare il mondo. Ancora voglia di libertà per aiutare se stessi e gli altri!

Prima del jantar (cena) mi ero premurato di recuperare un posto letto, trovato al primo piano di una residencia che si affaccia nella Praça Alexandre Albuquerque. Una camera modesta ma pulita a prezzi mais barato (più che economici) visto che siamo anche senza sponsor. Sdraiato nel letto leggo il libro "La via dei Canti" che mi accompagnerà per tutto il viaggio, un gradito regalo - arrivato per posta tre giorni prima di partire - del mio amico di Bolzano Liba (grande Tony); ad un tratto vengo colpito da un impercettibile movimento nella parete scrostata di fronte: è un piccolo geco bianco che muove in continuazione gli occhietti neri. Un piacevole incontro che mi rasserena, un segno di fortuna, speriamo perché in questa avventura ce ne vorrà tanta.

Mercoledì 24 novembre 1999

Partenza dall'aeroporto di Praia alla volta di Dakar, capitale milionaria del Senegal. Nell'aereo a fianco a me è seduto un ragazzo creolo con giacca e pantaloni neri, maglietta bianca, che assomiglia al cantante capoverdiano Gil. Osserva delle foto con lo sguardo perso, chissà dove stà viaggiando ora, sicuramente oltre l'aereo e forse ad una velocità che supera quella della luce; rimane così per quasi venti minuti come in trance, si riprende solo dopo che l'hostess annuncia il prossimo arrivo all'aeroporto Leopold Sedar Senghor di Dakar.

In aereo avevo notato che tutti i passeggeri oltre al passaporto ed alla solita carta di imbarco avevano anche la certificazione di vaccinazione, quindi mi sono allarmato un po' perché io ne ero completamente sprovvisto (mi ero informato a casa anche per la vaccinazione per la febbre gialla obbligatoria in Mauritania ma non c'era vaccino in Boa Vista!).

Mi avvicino ad una ragazza, anch'essa scesa dal mio aereo, si chiama Corinne e chiedo: quell'incontro è stata la mia fortuna. Io che ero senza un cfa (la moneta senegalese), senza un posto letto non avendo prenotato nessun hotel (il mio primo intento era quello di dormire in aeroporto), senza sapere come fare per superare almeno quattro sbarramenti fra Polis (polizia) e dogana, mi sono ritrovato al di là in un secondo, in macchina con autista a dormire in una villa con piscina. Infatti Corinne mi ha ospitato per una notte a casa sua, la sera quando siamo arrivati ad aspettarci c'era il marito con le due figlie e la mamma, veramente persone in gamba che lavorano per la Cooperazione Mondiale e più esattamente per l'Organisation Internationale du Travail. Loro parlano francese, inglese, spagnolo ed io un misto incasinato ma ci siamo capiti benissimo chiacchierando anche di gelati (la mia nuova attività avendo aperto la prima gelateria artigianale di tutta Capo Verde, la Gelateria Criola, che è sede anche del gruppo sportivo). Ho dispensato anche dei consigli ma sinceramente non ne avevano bisogno. Persone in gamba che è sempre un onore ed un piacere incontrare, veramente amabili. Spero vivamente che accettino il mio invito a soggiornare un po' a Boa Vista.

L'incontro della sera prima con il geco oggi ha dato prova che non è leggenda: a chi lo incontra o lo ha addirittura in camera porta fortuna.

Un'altra giornata è terminata: dormo tranquillo fra mura amiche con gente magnifica, fuori c'è il caos ed i problemi che può avere una città così grande!

Giovedì 25 novembre 1999

Dopo colazione Corinne mi ha accompagnato a Dakar facendomi da guida ed aiutandomi a muovermi fra banca ed agenzia di viaggi dove ho preso il biglietto aereo per Nouakchott, capitale della Mauritania. Una grande fortuna. Quando uno gira per il mondo non può mai essere sicuro che tutto sia a posto e stare tranquillo o per lo meno a me non è stato permesso: infatti ecco la sorpresa delle 11,40 (alle 13,45 avevo il volo per la Mauritania). Quando all'agenzia di viaggi mi consegnano dopo due ore il biglietto aereo mi comunicano che per passare in Mauritania è obbligatorio il visto di ingresso. Il costo è di 70.000 cfa (il biglietto aereo costava 63.000 cfa equivalente a 100 dollari): il problema non era per i soldi ma che questo visto lo rilasciava l'ambasciata della Mauritania.

Chiamo Corinne, spiego il problema, mi trova un taxi, contratta sul prezzo, si fa dare garanzie e parto dopo averla salutata e dopo lo scambio di indirizzi. Sono le 11,50. Traffico tremendo, ora di punta, piombo all'ambasciata: occorrono due foto (previdente nel portafoglio ne ho dieci: in Africa e comunque all'estero è sempre meglio portarsi dietro delle foto tessera per ogni evenienza), tutto ok, ma... il visto lo rilasciano domani. Vado dal funzionario e gli spiego, parlo con il viceconsole: "Sono un ultramaratoneta devo andare": in via del tutto eccezionale pago e mi ridanno il passaporto con il visto. Sono le 13,15 quando salgo nel taxi; alle 13,35 check in e formalità doganali, mi ritirano un coltello che mi verrà riconsegnato al mio arrivo in Mauritania. Sono l'ultimo passeggero a salire sull'aereo, dopo quattro minuti decolla. C'è l'ho fatta. Volo verso il deserto della Mauritania. La fortuna mi ha assistito ancora! Il geco continua la sua opera buona!

Durante il volo piuttosto breve faccio conoscenza con un signore che si rivelerà poi essere un funzionario dell'Air France, con il quale parlo di maratone estreme, un vero appassionato. La fortuna continua ad essere con me!

All'arrivo all'aeroporto di Nouakchott, subito sbarramenti di polizia e dogana, sembra essere una prerogativa dei paesi africani avere decine decine di poliziotti o "gendarmi" vari negli aereoporti (sembra di partecipare sempre ad una corsa ad ostacoli: ma sempre con l'handicap). Passaporto, visto, "Dove alloggia?" "Non alloggio, proseguo: vado a correre ad Atar" "No, deve avere un alloggio: problems". Chiamo il signore conosciuto sull'aereo che è lì vicino ed anche in questa occasione in quattro e quattro otto salto a pie' pari tutti i "birilli" ed esco dall'aeroporto. Ancora una gran fortuna e una gran faccia di bronzo! Il deserto dell'Adrar è sempre più vicino: ma ragazzi vi assicuro che è molto dura questa maratona di avvicinamento!

Comunque ora ho posato i piedi nella Rèpublique Islamique de Mauritanie" (Al-jumhûrîja al-Islûamîja al Mûritanîya)! Indipendente dal 28 novembre 1960, già colonia francese. Il francese e l'arabo sono le due lingue ufficiali. Religione prevalente la mussulmana.

Mi informo per un fuoristrada che dovrebbe portarmi ad Atar posta a circa 436 chilometri da dove sono ora, ma costa troppo; affittarla e guidare da solo non è consigliabile. Mi informo in giro ed opto per un viaggio in camion. Un camion militare francese trasformato in bus con sedili fronte marcia reclinabili adatti ai lunghi percorsi. Qui nell'attesa conosco un ragazzo senegalese, Babacar M'Bengue, ed un mauritano, Ousmane Ba; il primo ha moglie e figli in Senegal ma lavora in Mauritania ad Atar come carrozziere, l'altro è un perito elettronico ed è originario della Region de Gorgal Maghama, che torna a casa dopo aver comprato delle apparecchiature tecniche nella capitale. Intorno c'è molta gente, infatti il posto da dove parte il camion è la fermata dei taxi nella zona subito a ridosso dell'aeroporto: un porto di macchine e persone. Tutti vestiti con abiti tradizionali hanno in bocca il curdent per pulirsi i denti costituito da un pezzetto di ramoscello di bois de étile (legno di etile), un albero del deserto dai rami ricoperti di lunghe spine bianche che mi accompagnerà per tutto il viaggio attraverso la Mauritania.

Il camion tarda la partenza, ci viene caricato di tutto sopra, dai meloni ai sacchetti di cemento, alle zucche, alle stoffe e vari sacchi di patate. Caricano fino all'inverosimile; è pur vero che c'è una volta alla settimana e quindi... Si parte che ormai è quasi buio, fra posti di blocco della polizia e della gendarmeria, ben sette tra Noukchott ed Atar con controlli passaporti, libretti di vaccinazione eccetera arriviamo ad Atar il giorno dopo alle 13. Durata del viaggio: venti ore e dodici minuti. In compenso ho pagato solo 1500 ouguiya pari a circa quindicimila lire.

Venerdì 26 novembre 1999

Arrivati nella piazza centrale di Atar accompagno il mio amico senegalese Balacar M'Bengue a casa sua nella parte più vecchia e degradata di questa cittadina ai limiti del deserto dell'Adrar. Condivide una stanza di due metri per due con altri quattro connazionali, una realtà già conosciuta in altri viaggi ma che ogni volta ti fa riflettere ed arrabbiare sulla ingiustizia sempre presente. Lascio qualcosa per l'aiuto che mi ha dato durante il viaggio. Non vuole niente: insisto li accetta e ci salutiamo come se ci conoscessimo da anni. Durante il breve soggiorno ad Atar non ho più avuto modo di incontrarlo.

Arrivo alla sospirata meta ossia all'hotel Mèharistes dove sono atteso dal proprietario che mi informa in lingua spagnola che l'organizzatore della corsa è via ma che sarà di ritorno per il tardo pomeriggio. Qui mi sistemo in camera e conosco un ragazzo anch'esso senegalese M'Baye Sall di ventidue anni che parteciperà alla maratona. Siamo i primi due atleti arrivati sul posto, gli altri arriveranno scaglionati fra domani e dopodomani. Nel Senegal M'Baye è molto conosciuto nel campo delle maratone ma questa è la sua prima volta che tenta una corsa nel deserto e la distanza lo spaventa. Ha rilasciato alcune dichiarazioni alla televisione senegalese sull'esito positivo della partecipazione e quindi ora è un po' preoccupato.

Arriva Alain Gesten, l'organizzatore, capello lungo biondo, occhio celeste, bandana, giubbetto deserticolo, faccia vissuta... direi "uomo da deserto". Parliamo. È molto diretto, piace ed è amato dai mauritani che lo conoscono da tanti anni: è l'unico al mondo che ha fatto a piedi con un carrettino, da Dakar a Parigi in sei mesi, attraversando deserti e territori inesplorati!

Sabato 27 novembre 1999

È il grande giorno in cui incontrerò dopo diversi mesi che manco dall'Italia i miei tre amici italiani di corse, Amerigo (la "Faina" della maratona delle sabbie), Riccardo (compagno della prima "Desert Marathon" in Libya 1998) e Filippo, un atleta assoluto di sicuro valore nazionale. Gli ultimi due puntano a fare un buon risultato, io e Amerigo ad arrivare in fondo senza stress gustandoci il paesaggio misterioso e fantastico del deserto. Nell'attesa del loro arrivo vado a correre con M'Baye Sall.

Alle 14 l'incontro, ci scappa qualche lacrima, l'emozione prende il sopravvento è un attimo, poi la corsa, e si ritorna ai vecchi problemi di organizzazione; comunque la lontananza si sente molto! Quanti ricordi di momenti passati insieme, la mente ti si affolla di ricordi. Questa è la vita: una continua serie di emozioni diverse in cui provi dolore e gioia!

Ci buttiamo alle spalle tutte queste smelancerie e ci prepariamo al trasferimento nel deserto vero e proprio dove è stato allestito il campo con tende mauritane, bianche, chiuse dai tre lati sorrette da un palo centrale, diverse da quelle berbere del Marocco che invece sono aperte da tutti lati. Ci aspettano tre ore di fuoristrada per arrivare a Oudane!

Domenica 28 novembre 1999

Domenica è il giorno in cui arrivano tutti i partecipanti alla maratona, si salutano i vecchi amici (ci sono alcuni conosciuti alle varie "Marathon des Sables" nelle nove edizioni a cui ho partecipato), si conoscono i nuovi, tutta gente comunque esperta di deserto, con le facce segnate dal sole e dalla abitudine dello sforzo estremo: ci sono i vincitori della gara alla Reunion, c'è la campionessa europea e del mondo di triathlon, l'irlandese Doina Nugent, c'è il vincitore della Sparta/Atene (247 chilometri no-stop), Renè Heintz e tanti altri come noi che pur non essendo vincitori partecipano perché apprezzano e rispettano il deserto! Terminiamo di sistemare le ultime cose, borse personali, zainetto e camel bag che saranno un corpo unico con il nostro per trecentocinquanta lunghi e tribolati chilometri (323 chilometri ufficiali) di questa "TransMauritanienne" ossia la "corsa più lunga del mondo".

A differenza degli altri partecipanti noi italiani partiamo più carichi ossia portiamo nel nostro zaino oltre ai tre litri di acqua, sali, kit di sopravvivenza, medicinali vari, roba da mangiare ed il sacco letto. Non dovrebbe essere necessario portare tutto ciò perché l'organizzazione di questa ultramaratona ha posto i bivacchi - chiamati cp - ogni venti chilometri circa (con rifornimento di acqua e di cibo nonché di materiale per dormire, materasso e coperte). Quindi la nostra è solo una precauzione in più: in questo caso però direi che è stata azzeccata... poi capirete il perché.

L'idea di dover percorrere così tanti chilometri spaventa un po' tutti, il tempo a disposizione non è poi molto - cinque giorni - ed è anche questo che aumenta l'apprensione in ognuno di noi! Comunque i più "tirati" sono gli uomini di classifica; io con Amerigo, Riccardo, Filippo e i tre amici francesi Didier (o "Chain Fou"), Alain ("Ghepard") e Christian ("Gazelle") ridiamo, scherziamo e ci mangiamo dei gran pezzi di grana e fette di prosciutto: purtroppo non abbiamo il vino altrimenti la festa sarebbe stata completa.

Conosciamo i tre medici che seguiranno la corsa (risultati poi assolutamente insufficienti come numero per coprire interamente il percorso e per seguire settanta concorrenti) e stringiamo amicizia con Serge e Barbara, due medici del gruppo "Medici senza frontiere", gente impegnata e presente purtroppo in ogni calamità che accade nel mondo. È un piacere dialogare e conoscere uomini così pronti a sacrificarsi per gli altri: secondo me sono loro che in qualche maniera riequilibrano le storture e le ingiustizie compiute da altri uomini sui propri simili!

Conosciamo parte dello staff organizzativo. È bello conoscersi di persona dopo aver parlato magari per mesi attraverso e-mail, così è capitato che abbiamo visto e parlato con Gèneviève e Christelle che ci hanno aiutato durante tutta la gara.

Dopo la cena consumata intorno ad un bel fuoco amico tutti insieme, ma ciascuno con i propri pensieri e le proprie paure, noi italiani ci riuniamo sotto alla tenda ed al chiarore di un tenue lume fatto da due candele ridefiniamo nel dettaglio quale sarà la nostra condotta di gara nei giorni che verranno: una gara no-stop di 310 chilometri poi aumentati a 323 chilometri rivelatasi, infine, a detta dei più esperti di 350 chilometri, da percorrere in condizioni estreme con un terreno al 70% di sabbia; viene richiesta concentrazione, determinazione, sapiente organizzazione e strategia di corsa non tanto in funzione degli avversari ma per poterla fare e terminare gustandola in tutti i suoi aspetti, per cui una pianificazione intelligente è d'obbligo.

Io e Amerigo decidiamo di provare a portare a termine la gara in quattro giorni e quindi contiamo di fare ottanta chilometri al giorno, correndo nelle ore più fresche, riposandoci in quelle più calde del mezzogiorno (da 43 a 48 °C) e riprendere verso sera per correre tutta la notte. Gli altri due, avendo una preparazione da professionisti e giuste mire di classifica, decidono di farla in tre giorni e quindi di aumentare il chilometraggio giornaliero ma soprattutto diminuire i tempi di riposo, strategia questa non sempre vincente specie nel cocente e difficile deserto sahariano. La notte stranamente ci trova tutti tranquilli e sereni e dormiamo sodo come non mai: forse sarà ormai l'abitudine ad affrontare queste prove... basta dire che alla mattina ci verranno a svegliare i nostri tre amici francesi!

Parte seconda: la gara

Lunedì 29 novembre 1999, ore 6 sveglia e colazione, ore 8,30 briefing, ore 9,10 partenza. Foto di gruppo sotto lo striscione di partenza, tutti sorridenti e lindi nell'abbigliamento impeccabile. Strette di mani, saluti sinceri fra gente che sa di andare a soffrire e non poco, per un diploma o una medaglia o meglio ancora per un piacere personale che ritrai dall'essere parte integrante di un ambiente che ti assorbe e ti attrae con i suoi colori ed i suoi movimenti fatti di sabbia e di vento.

La partenza è sempre molto veloce in breve io ed Amerigo rimaniamo quasi ultimi, dopo qualche chilometro di sabbia molle però siamo nel gruppo a ridosso dei primi e così per oltre un'ora. Poi inizia il tratto duro delle dune e qui le indicazioni della bussola, risultate diverse, ci creano i primi grossissimi problemi. Quel fatidico cap 90 che abbiamo seguito ci ha portato fuori strada, abbiamo percorso per intero su e giù una infinità di dune da nausea per poi renderci conto che eravamo su una pista sbagliata, non c'era traccia di uomini. Grazie al binocolo che avevamo portato dietro (la prudenza non è mai troppa) siamo riusciti a ricompattarci con un altro gruppo di dispersi: totale 9 compresi i tre francesi della Reunion - Didier, Alain e Christian - che saranno poi nostri compagni per tutto il resto della corsa. Rientrare in gara è stato difficilissimo sia da un punto di vista fisico che psicologico, davamo segni di insofferenza, eravamo al limite del tracollo psichico, ma tirando fuori il coraggio dei forti, senza falsa modestia, ci siamo ripresi alla grande. Abbiamo rischiato di dover abbandonare una gara per la quale avevamo speso un anno intero di sudore! Partire per fare una gara durissima e poi complicarsi la vita, non per colpa nostra, con altri venticinque chilometri fuori dal programma e per giunta tutti di sabbia molle non è piacevole!

Arriviamo comunque al cp 1 e troviamo fortunatamente la nostra stella francese Christelle che ci rifornisce di frutta, acqua e patè de foie. Siamo ultimi assoluti. Si riparte dopo una mezz'ora all'inseguimento di tutti gli altri, lo sforzo è stato tanto, il riposo poco, ma c'è la determinazione di voler portare a termine i programmi e quindi sotto con le gambe; durante il tragitto mangiamo del grana e beviamo tè, è molto importante durante questi sforzi alimentarsi e bere regolarmente magari piccoli sorsi ma ogni cinque o dieci minuti ed assumere sali ogni ora. Arriviamo al cp 2 che ormai è buio e sono quaranta chilometri ufficiali, appena il tempo di riempire le borracce di mangiare un po' di prosciutto che abbiamo nello zaino, un po' di macedonia di frutta e via verso il cp 3 per altri venti chilometri.

Di giorno viaggiare e correre nel deserto è un problema per il caldo, correre o semplicemente camminare nel deserto di notte ne comporta altri di diversa natura ed anche più seri se il percorso non è balisato (segnato) e questo non lo era. Se aggiungete che purtroppo per un errore nostro le lampade delle torce frontali che avevamo portato assorbivano troppa energia e le pile si scaricavano e duravano massimo un'ora la frittata è fatta. Ci siamo persi due volte e per due volte abbiamo ritrovato la pista, dovevamo però aguzzare gli occhi come non mai, controllare tracce e verificare la bussola, siamo arrivati al cp 3 semidistrutti: ma non domi.

Martedì 30 novembre 1999

È ormai il 30. Siamo stanchi, è buio pesto e siamo senza torce. Decidiamo di proseguire ugualmente quando due concorrenti svizzeri si alzano dalla tenda del bivacco cp 3 per andare via; abbiamo pensato che utilizzando le luci delle loro due lampade magari accese una alla volta forse riuscivamo ad arrivare anche noi al cp 4 (ottanta chilometri ufficiali); abbiamo esposto il problema ai nostri due amici di ventura e siamo partiti. La fortuna e le nostre gambe oltre ai nostri martoriati piedi ci hanno assistito arrivando con grandissima fatica, direi spossati al quarto bivacco alle tre di mattina dopo aver percorso 105 chilometri di sabbia in 18 ore e 20 minuti.

Ci siamo buttati sotto la tenda così come eravamo senza neanche togliere lo zaino né le scarpe, non abbiamo mangiato, né bevuto. Eravamo contenti di essere arrivati lì. Non abbiamo dormito né parlato: eravamo come in trance! Poi un tè alla menta portato da un ragazzo mauritano con il turbante blu seguito da un caffè ci hanno ridestato da questo stato comatoso in cui eravamo caduti: è tornata la parlantina, le battute e le risate. Il sangue è tornato a pulsare nelle vene e purtroppo anche nelle vesciche e sotto le unghie dei piedi: eh si perché cari ragazzi nonostante avessimo scarpe con un numero e mezzo in più tra sabbia e chilometri percorsi le unghie, le piante ed i calcagni, erano ormai segnati e di che tinta!

Ci siamo medicati alla meglio in attesa di trovare un medico (nei precedenti chilometri percorsi medici nada). Effettivamente tre medici per 323 chilometri ufficiali e settanta concorrenti è da matti, non viene assolutamente assicurata quella cura che invece si richiede in gare estreme come questa! Comunque ormai sei in ballo e devi ballare fino in fondo e quindi rendendoti conto anche del tipo di organizzazione devi prestare ancora maggiore attenzione a ciò che andrai a fare nel proseguo ed adottare tutte quelle accortezze derivate dall'esperienza di dieci anni di corse nel deserto! Così abbiamo fatto. Il "Selvaggio africano" e la "Faina" italiana si sono concentrati ancora di più e si sono messi sulla difensiva ossia hanno mirato a rischiare il meno possibile anche perché si è verificato che per chilometri e chilometri non eri seguito da nessun mezzo dell'organizzazione e questo a pregiudizio della sicurezza degli atleti. Il fatto di essere a correre in due ha aiutato molto sia noi che Riccardo e Filippo, infatti aiutandoti a vicenda andavi avanti anche se in quel momento magari preferivi riposarti anche sapendo che poi difficilmente ti saresti ripreso.

Sono saltati tutti i programmi riguardanti le ore in cui correre: ormai siamo costretti a correre soprattutto nelle ore più calde ma direi che siamo costretti a correre e basta per quasi tutto il giorno!

Partiamo, ma le gambe non rispondono in pieno ed i piedi sono doloranti, effettivamente il giorno prima ci eravamo sforzati troppo, decidiamo di limitare il nostro impegno a sessanta chilometri, ripromettendoci di recuperare la notte. Arriviamo ai vari cp 5, cp 6, cp 7 (qui arriviamo a notte fonda e non c'è nulla dove stendere le nostre povere ossa doloranti per dormire: recuperiamo dei cartoni dell'acqua da usare come materassi e ci buttiamo sopra con il nostro sacco letto; fa freddo ma resistiamo, durante la notte man mano che gli altri vanno via recuperiamo i materassi e le coperte e così al caldo dormiamo della grossa ci svegliamo la mattina alle 9).

Mercoledì 1 dicembre 1999

È il primo dicembre. Ormai abbiamo capito che se vogliamo arrivare in fondo dobbiamo correre continuamente e quindi soffrire di giorno nelle ore più calde; ormai stiamo andando avanti in maniera totalmente opposta a quanto ci eravamo prefissati! Al risveglio, qui al cp 7, fortunatamente c'è Serge, il medico di "Medici senza frontiere", che ci ricuce un po' le estremità ormai malandate.

Si riparte che ormai sono le 10,30, percorriamo piste sabbiose infami, piste più pedalabili, pietraie ed attraversiamo altopiani dai mille orizzonti. "Al termine di quella salita ci dovremmo essere...": la superi e subito davanti si presenta un altro orizzonte, bellissimi se volete ma duri, difficili a raggiungere. Il fascino del deserto è quello che non vedi mai la fine, senza barriere e senza frontiere visibili, è un orizzonte continuo o tanti orizzonti in fila.

La verità è che anch'io sono innamorato ed attratto da questo infinito orizzonte ed è per questo che mi riconosco in pieno nel libro di Bruce Chatwin, "La via dei Canti", quando parla di "un vagabondo innamorato dell'orizzonte"; ma nella circostanza debbo riconoscere che è parecchio faticoso raggiungerlo il cp 8. E qui avviene la prima sorpresa, chiediamo acqua come tutti gli assetati e l'acqua non appare neanche con un miracolo (e pensare che anche io ho i capelli lunghi fino al sedere, biondi, e vado a predicare in giro... magari se volete solo corsa nel deserto, ma...). È terminata: ce ne sono solamente due litri. Con Amerigo ci guardiamo: "Cosa facciamo?" gli dico "Vuoi che la moltiplichi?". "Andiamo? Proviamo?". "Ma si vai: andiamo!". Mangiamo, avendo l'accortezza di usare più sale del normale (aiuta a trattenere i liquidi ed a noi ne sono rimasti veramente pochi a disposizione), ci riposiamo un attimo sorseggiando un tè alla menta offerto dai ragazzi locali presenti al bivacco: vi possiamo assicurare che seduti all'ombra della tenda di cotone bianco leggermente ventilata e con in mano un tè è veramente difficile pensare di rimettersi a correre là fuori nel deserto sotto il sole, con poca acqua a disposizione e tanti chilometri da percorrere.

È veramente molto duro ma dobbiamo ripartire: gambe al vento verso un altro orizzonte. Dopo alcuni chilometri veniamo raggiunti da un pastore mauritano a cui diamo dell'acqua: in verità dà appena una sorsata, è magro con il volto scavato, gli occhi dallo sguardo intenso ed incuriosito, segnati da profonde rughe, nei piedi ha dei sandali di cuoio retti da fil di ferro, cammina con una forza straordinaria, muovendo le gambe con una agilità e leggerezza sorprendente, non sembra fare la minima fatica mentre noi sbuffiamo e sudiamo maledettamente; un po' a gesti ed un po' nel dialetto hassanya (di derivazione araba) ci spiega che sta andando ad Atar a piedi per cercare di comprare degli armenti al mercato locale.

Arriviamo al cp 9 convinti di fare il pieno d'acqua, ormai è calata la sera: niente. Neanche qui c'è acqua! Dobbiamo fare quaranta chilometri con due litri d'acqua in due! Li abbiamo fatti! Con il senno del poi non saprei se rischieremmo ancora, ma forse si: in fin dei conti un po' più di rischio aumenta l'adrenalina e questa ti fa venire ancora più voglia di vivere! Una vita piatta diventa grigia, con un po' di rischio calcolato diventa più colorata, con il rischio puro non calcolato diventa da fuori di testa e noi forse tutte le rotelle non le abbiamo al loro posto. Per lo meno qualcuno afferma così!

Anche qui breve riposo e poi verso il prossimo bivacco, posto nella fantastica e mitica città di Chinguetti, prestigiosa per la sua raggiante e colta spiritualità. Questo tratto di strada verso Chinguetti va percorso due volte, uno all'andata e l'altro al ritorno, una cosa strana ma è già la seconda volta che l'organizzazione ci fa ripetere il percorso per un totale di settantaquattro chilometri: certo che è strano con tutto lo spazio aperto che può avere un deserto... Comunque questo percorso avanti ed indietro ci permette di incontrare e parlare con i nostri due amici, Riccardo e Filippo che senza fermarsi più di tanto al bivacco di Chinguetti sono ripartiti verso il successivo cp 11. Un incontro piacevole con scambio di battute e di parole di reciproco incoraggiamento. Ci siamo resi conto che tutti avevamo bisogno di parole di conforto perché estremamente provati nel fisico e nella mente. Questa credo sia stata, forse più di altre, un gara in cui ha contato solo la testa; questa ultramaratona, con il suo percorso soprattutto su altopiani lunghi e piatti, ha messo a dura prova la tenuta psicologica degli atleti.

Arriviamo molto provati al bivacco, mangiamo qualcosa e subito cerchiamo di dormire. Alcune volte diventa veramente difficile rilassarsi e chiudere gli occhi quando sei molto stanco e dolorante e così è stato per me.

Giovedì 2 dicembre 1999

La mattina dopo controlliamo i danni ai piedi e prendiamo entrambi la decisione drastica di tagliare la parte anteriore delle nostre rispettive scarpe viste le condizioni gravi in cui versano le nostre estremità inferiori; Amerigo per evitare ulteriori abrasioni ai calcagni ed io per evitare il contatto ai miei "allucioni" ridotti a salsicciotti con unghie attaccate molto precariamente. Decisione questa molto sofferta perché ancora abbiamo molti chilometri da percorrere fatti di sabbia e di pietre e con le scarpe così tagliate e ridotte a mo' di sandali non è che sia il massimo dell'efficienza e della sicurezza per una corsa nel deserto!

Partiamo e troviamo fortunatamente un ritmo di corsa insperato! Passiamo vari cp fino a che arriviamo in prossimità di quello del duecentosettantesimo chilometro e ci troviamo di fronte uno spettacolo unico; montagne rotonde con alla base un labirinto di canyon con dei fortini di pietra nelle sommità, il film di Depardieu prende corpo, è il luogo dove hanno vissuto e combattuto i soldati della Legione Straniera, che ha dato spunto per realizzare la famosa pellicola "Fort Sagane". Dobbiamo scendere nei canyon attraverso un passaggio in pietra particolarmente pericoloso. È quasi buio. Scendiamo con cautela e ci involiamo verso il cp 13. E qui la sorpresa, purtroppo non molto bella: infatti c'è il ricongiungimento del gruppo italiano: il "Selvaggio africano" e la "Faina" italiana, con il loro passo da diesel, hanno ripreso i più veloci Riccardo e Filippo; ma quest'ultimo è sotto la tenda con attaccata la terza flebo: colpo di caldo e successiva disidratazione. Riccardo anch'egli con gravi problemi di dissenteria e molto provato dallo sforzo fatto per tenere il passo dei primi!

Il deserto non va assolutamente temuto ma rispettato si. Non perdona. Quando lo attraversi devi controllare tutti gli sforzi senza spreco di energie a meno di non avere scorte infinite di risorse che in questo caso non c'erano.

Ci riposiamo, si mangia qualcosa e ci mettiamo d'accordo con i ragazzi francesi Didier ed Alain per andare via insieme, per fare un gruppo unico; è notte fonda, buia come non mai e siamo dentro i canyon. Il vento tira forte ed abbiamo sempre i problemi delle lampade che nel frattempo non siamo riusciti a risolvere. Via di nuovo attraverso il deserto alla ricerca di un arrivo che appare sempre più prossimo ma non sicuro! Un atleta danese ed un francese abbandonano giunti a pochi chilometri dall'ultimo bivacco: la stanchezza fisica e mentale li hanno vinti.

Noi tre - Riccardo, Amerigo ed il sottoscritto - lasciamo Filippo alle cure del medico, stringiamo i denti e soprattutto le scarpe, ormai coperte di sangue (o meglio, di sabbia e di sangue, una crosta tale che copre alla vista le scarpe stesse) e continuiamo a correre lungo queste piste di cui non vedi mai la fine. Alcune volte l'arrivo sembra lì a pochi chilometri ed altre a centinaia di miglia.

Ormai siamo vicini alla meta ed il mio passo e quello di Amerigo si mantengono uguali mentre il Pellistri innesta la sesta e parte a testa bassa: velocissimo. Arriverà quarantacinque minuti prima di noi! Ed anche in classifica generale lui trentasettesimo e noi a parimerito trentanovesimi in 103 ore e 39 minuti.

Poco prima dell'ingresso ad Atar, lungo la strada, osserviamo una scena drammatica; ci sono infatti molte carcasse di cammelli e capre: chiediamo il perché ad un pastore e lui risponde che sono state uccise dalle autovetture e dai camion che sfrecciano su queste piste. Gli autocarri ed i fuoristrada sono i nuovi "cammelli del deserto" o meglio le nuove "navi metalliche del deserto"; poco lontano vediamo due piccoli pastori con i propri cani che stanno "pascolando" questi "cammelli" di nuova concezione, colore metallico, con hi-fi e marmitta catalitica, che costano diverse decine di milioni: quando si dice il rispetto per l'ambiente...

L'arrivo in paese è una festa generale, ci viene incontro anche Filippo, sempre con la faccia un po' provata ma sorridente, ed attraversiamo la fatidica striscia bianca con le nostre scarpe "in versione refrigerante", all'ultima moda, sotto uno scrosciare di applausi.

La nostra avventura si è conclusa in poco più di centotre ore. Il traguardo che all'inizio sembrava impossibile è stato raggiunto ed oltrepassato. Grande gioia per una impresa che ha del fantastico: trecentoventitre chilometri di corsa no-stop: anche questa volta il "Selvaggio" e la "Faina" ce l'hanno fatta! Con umiltà e modestia hanno saputo convivere e rapportarsi al deserto in modo tale che hanno concluso la gara ed apprezzato ogni minima sfumatura di questo affascinante ambiente che elargisce così tante sensazioni contrastanti ma di una purezza unica, indescrivibile.

Amerigo mi confessa che per questa gara si era preparato moltissimo avvalendosi dell'aiuto, e per questo ci tiene a ringraziare, del preparatore atletico Andreani Andrea ed il medico sportivo Marco Gavarini, a cui va anche il mio personale ringraziamento, ed un altro saluto, questa volta particolare, al suo amico Paolo Zatteri (lui c'è sempre nei ringraziamenti post-gare) per una pronta guarigione (ha preso il virus dell'amore nel senso che si è innamorato a Praga nel luglio 1999 e non si è ancora ripreso: un po' di Mauritania gli avrebbe sicuramente giovato soprattutto sulle dune calde ed infuocate come solo il suo cuore sa essere).

La corsa più lunga del mondo si è dunque conclusa, con il deserto, calmo ed imparziale testimone di un'altra prova bagnata di sudore e di sangue, versati, sulle sue piste fatte di sabbia e di pietraie basaltiche, da uomini e donne alla ricerca di se stessi e di stimoli personali indubbiamente sempre più no-limit. Quell'impresa che all'inizio dell'avventura sembrava impossibile da realizzare è stata compiuta, l'impossibile tante le volte è tale perché noi non vogliamo renderlo possibile: tante cose sembrano irraggiungibili, ma solo poche a parere mio lo sono veramente, le altre è perché forse non abbiamo la volontà e la giusta determinazione nel raggiungerle.

Una cena all'aperto, una premiazione con consegna di diploma ed una felpa gialla questo il premio visibile, materiale, offerto dall'organizzazione, l'altro premio quello più importante ognuno lo serba nel proprio intimo!

Venerdì 3 dicembre 1999

L'indomani è forse il momento più brutto. Invece di assaporare la gioia per aver concluso questa ultramaratona, devi ingoiare amaro perché è il momento degli arrivederci. Dagli amici e dalle amiche conosciuti in questa occasione - Alain, Genevieve, Christelle - e quelli conosciuti in altre maratone precedenti nelle più svariate parti del mondo; nel mio caso personale dagli amici Amerigo, Riccardo e Filippo. Erano circa sei mesi che non ci vedevamo, da quando mi sono trasferito in Cabo Verde, il ritrovarci ci ha emozionati ed esaltati al tempo stesso, ci ha dato forza, ora il doverci lasciare di nuovo e sapere che magari ci rivedremo fra sei mesi o un anno ci rende parecchio tristi; da "uomini forti del deserto" limitiamo al minimo i saluti per non farci sopraffare dalle lacrime. Loro partono in aereo alla volta di Marsiglia e poi in treno verso l'Italia. Io parto subito invece per la mia terza maratona ossia quella del ritorno a casa. Per venire in Mauritania ho impiegato quattro giorni per ritornare a Cabo Verde ne impiegherò ben sei!

Parte terza: il viaggio di ritorno

La ultramaratona era iniziata alle ore 9 di lunedì ed è terminata il venerdì alle ore 16. La festa di gala serve anche per lo scambio di indirizzi fra i partecipanti con promesse dell'inizio di un rapporto epistolare o telefonico infinito! La notte trascorre movimentata, insonne con balli e bevute di liquori locali e la mattina ci trova nonostante tutto più svegli che mai: è l'ora degli addii e degli arrivederci, delle strette di mano, delle pacche nel culo e dei baci.

La fortuna ancora una volta mi aiuta: perché? Semplicemente per il fatto che era previsto che dovessi tornare a Dakar (in Senegal) in fuoristrada con l'organizzatore Alain Gesten, ma per motivi vari questi rientra in aereo e quindi io non avendo prenotato l'aereo (anche in considerazione del notevole costo) mi trovo appiedato. Ed ecco qui l'influsso benefico dei gechi: i tre francesi di Saint Tropez - Didier, Alain e Christian - decidono di prolungare la permanenza nel continente africano con quindici giorni in Senegal, partendo subito il sabato. Hanno prenotato una macchina: dividiamo i costi in cinque perché nel frattempo si è aggregato anche il ragazzo senegalese M'Bayle Sall, il primo atleta conosciuto da me in Mauritania. Due conti ed accetto!

Alle 10 di sabato la partenza alla volta di Dakar attraverso la Mauritania (Atar, Nouakchott, Rossì) e buona parte del Senegal. Noi cinque oltre l'autista saltiamo dentro un Toyota con climatizzatore dal costo in moneta locale di 15.000.000 ouguiya pari a 150.000 franchi francesi. Tantissimi soldi: pochi mauritani possono permettersi una autovettura di questi livelli.

L'obiettivo iniziale è quello di attraversare il deserto della Mauritania coprendo i quasi mille chilometri che conducono al confine con il Senegal, passando per la capitale Nouakchott, e Rossì ed arrivare così alla frontiera.

Il paesaggio per arrivare alla capitale è sempre affascinante ma monotono, una distesa piatta ora di sabbia ora di pietre, con piante di etile, i cui rami vengono utilizzati dai mauritani per pulirsi i denti. Il termometro della autovettura segnala che fuori c'è una temperatura di 36 gradi.

Arriviamo alla periferia un po' grigia di Nouakchott in quattro e quattro otto (all'andata avevo impiegato ben venti ore con il camion militare); al grigiore si somma poi il classico caos di persone e di mezzi delle capitali ed una pulizia dei luoghi non proprio come si intende noi. Il centro città è un insieme di incroci e di strade interessate soprattutto da una circolazione di taxi e di pulmini Mercedes verdi con strisce gialle, carichi fino all'inverosimile, con persone accalcate in maniera terrificante dietro, sopra e perfino "sotto" il veicolo; dal peso le ruote posteriori non si vedono ed il pulmino sembra in posizione di decollo... In direzione di Rossì la periferia peraltro acquista interesse perché è il luogo dove vengono tenuti i cammelli, dentro grandi recinti, sia per la vendita che per l'allevamento dei piccoli; per alcuni chilometri si vedono decine e decine di piccoli cammelli con le madre a cui sono state "insaccate" le mammelle per impedire ai piccoli di essere sempre lì a poppare; lo stesso metodo viene adottato anche con le capre.

Man mano che ci avviciniamo a Rossì il paesaggio è più vario, si intensificano le piccole dune dalla colorazione ora ocra ora marrone e bianco, con vegetazione più o meno alta. Qui troviamo degli insediamenti stabili costituiti da tende bianche, grandi villaggi di tende che si stagliano contro la linea ondulata delle dune che rendono il paesaggio mistico; il tramonto con le striature rosse è semplicemente incantevole, da favola.

All'improvviso dietro nell'ennesima duna appare in lontananza la città di Rossì; l'impatto non è dei migliori. Strade lastricate con migliaia di rifiuti in sacchetti di plastica, costruzioni in corso di ultimazione e altre in condizioni precarie; lungo le vie ci sono carretti di legno con ruote di ferro trainati da somarelli. "Guarda là" mi fa Didier. C'erano due somarelli legati uno per lato alle portiere di una Mercedes in buono stato! L'auto interessa anche un cane pezzato (assomiglia ad una capra) che facendo finta di nulla alza la zampa in direzione del pneumatico anteriore destro liscio come non se ne sono mai visti neanche in Formula uno!

Andiamo in un ristorante nella parte più caratteristica di Rossì ma anche la più degradata e mangiamo un piatto unico fatto di pollo, riso e couscous; la notte la passiamo in una casa privata, dormendo pochissimo; io per le fitte ai piedi, che medicati alla meglio continuano a buttar fuori del pus, Didier ed Alain con problemi di dissenteria. Siamo comunque ai confini con la Repubblique du Sènègal.

La mattina successiva, domenica, siamo alla frontiera, che qui è delimitata dal fiume Senegal e quindi occorre attraversarla in piroga di legno. Inizia tutta la procedura per il passaggio del confine: controllo passaporti, certificati di vaccinazione per la febbre gialla e poi il rito della contrattazione del biglietto. Dopo due ore di attesa siamo sulla piroga che imbarca acqua, ma il tratto di fiume è breve e... non affondiamo. Siamo dall'altra parte a Corana, in territorio senegalese.

Il Senegal è anch'esso, come la Mauritania, indipendente dall'11 settembre 1960, già colonia francese; la lingua ufficiale e commerciale è il francese; in uso nel paese diverse altre lingue (il wolof è la lingua nazionale); la religione praticata prevalentemente è la mussulmana (75%).

Contrattiamo il prezzo di un taxi per condurci a Dakar, troviamo a prezzi modici una ragazzo con una Peugeout familiare tenuta su da una buona dose di filo di ferro. Quando accende il motore grande fumata bianca dal cofano. Speriamo bene! La Mauritania l'abbiamo attraversata in fuoristrada climatizzato, il Senegal con un macinino che alla faccia delle apparenze però è stato velocissimo e non ha avuto il minimo problema: una autovettura così nel nostro mondo era già oggetto di rottamazione, mentre noi ci abbiamo fatto seicento chilometri! La strada che ci porta verso Dakar è una lunga linea di asfalto disseminata di buche, che attraversa una immensa pianura coltivata a canna da zucchero e riso (che costituisce la quarta voce nelle colture prodotte dal Senegal dopo arachide, cotone e miglio). Si incontrano in questo primo tratto diversi gruppi di case a forma di pagliaio costruite in paglia e terra o solo di paglia. Fuori gente che lavora nei campi e bimbi che giocano nel fango prodotto da una perdita di un serbatoio, dono della Cooperazione internazionale (strano a dirsi ma molte di queste donazione fatte qui in Africa o in altri paesi poveri, a parer mio, "fanno acqua").

Si prosegue ma io ho un forte dolore ai piedi, la notte precedente mi ero bucato una unghia per eliminare il sottostante ematoma, ma in mancanza di ago avevo eseguito l'operazione con un accessorio del mio coltello opportunamente sterilizzato con l'accendino ed avevo paura di aver peggiorato la situazione ai fini dell'infezione. Pensiamo che forse è il caso di andare dritti all'ospedale civile di Dakar!

Percorriamo un tratto di savana e la strada è attraversata da gazzelle che con grandi salti si disperdono fra i cespugli; la macchina fotografica ha il rullino finito e quello nuovo è dietro nello zaino... un vero peccato!

Arriviamo a Saint Louis du Senegal, una città viva, colorata, molto diversa dal grigiore delle città mauritane, passiamo lungo la "cornice" dove c'è il mercato, tante persone, con cavalli e carretti come mezzi di trasporto delle merci e furgoni Mercedes recanti la scritta "Alhamdou Lilahai" come trasporto passeggeri. Ci fermiamo ad una stazione di carburante con l'inserviente in una impeccabile divisa ci serve in regalo una busta contenente del tè e dello zucchero. Ci immettiamo sulla strada dove c'è il mercato con decine di donne, fra l'altro molto belle con un portamento regale, avvolte nei loro abiti coloratissimi, spesso con bimbi in cintura tenuti da pezzi di stoffa tipo pareo. Nel Senegal le donne vengono chiamate "gazelle" ed in effetti hanno l'andatura agile e scattante di questi splenditi animali delle savane.

Attraversiamo vari paesi Barale Ndyane-Louga, Saurel-Fas, Mpal, fino ad una deviazione micidiale, un fuoripista da urlo, con l'autista che galvanizzato da questo improvviso Camel Trophy organizzato per noi, esegue un sorpasso leggermente azzardato... su due ruote (se tenete conto che tutte le parti del taxi quelle rovinate non erano saldate ma tenute insieme dal fil di ferro capirete perché ci siamo visti morti stecchiti...); al termine della deviazione abbiamo fatto una sosta tattica consumando quasi due rotoli di carta igienica a testa... Siamo uomini duri del deserto!

Abbiamo finito l'acqua da bere e urge mangiare. Fortunatamente qui in Senegal c'è frutta a volontà per cui facciamo il pieno e Christian rimedia del betadine in farmacia per cui oltre che riempire lo stomaco posso così anche disinfettarmi le unghie.

Siamo a cento chilometri da Dakar ed il paesaggio cambia ancora; ora lungo la strada si vedono centinaia di baobab piccoli e quelli secolari, alberi con radici che arrivano anche a otto metri di profondità. Vicino proprio alla strada c'è n'è uno che sta morendo: le sue fibre a poco a poco si stanno seccando. Strano ma fa un certo effetto e provoca un po' di tristezza in tutti noi. Ci eravamo fermati un attimo, ma ora senza dire una parola ripartiamo subito. Prendiamo il bivio per Saly, nota località turistica per soggiorni al mare del Senegal, ricco di villaggi turistici ottimamente organizzati per ricevere per lo più turisti francesi e spagnoli. Località molto pubblicizzata dall'Air Afrique! Poco prima di arrivare a Saly attraversiamo il territorio di un riserva naturale, la Reserve de Bandia, con una infinità di baobab sovraccarichi di scimmie!

È domenica ed arriviamo nel villaggio dove gli amici francesi avevano prenotato una casa nel pomeriggio; la prima cosa che vediamo entrando in casa sono due iguane che prendono l'ultimo sole sdraiate beatamente nella calda parete; ancora loro, la fortuna dovrebbe ancora sorreggermi.

Didier, Alain e Christian si prodigano oltre misura nell'aiutarmi a curare i piedi ma sono in condizioni tali che decidiamo di ricorrere all'intervento medico; non c'è infezione grave sentenzia il doctor, ma consiglia cura antibiotica d'urto. Quindi sono fortunato posso cavarmela da solo anche nelle medicazioni basta che resista un po' al dolore! Da domani poi mi ritroverò da solo: infatti lascerò la casa dei miei amici francesi per andare a Dakar (che dista ottanta chilometri da Saly) da dove partirò alla volta di Cabo Verde. L'indomani in taxi andiamo tutti a Dakar; giro turistico della città, la "cornice", con il mercato Soumbediune, lungomare dove trovi tutto quello che di buono produce l'artigianato del Senegal; in questi mercati si esalta la personalità e vocazione commerciale dei senegalesi: nati per vendere! Assaggio il plat national senegalese il thikbou dieun (riz au poissoun) e poi ancora in giro: passiamo in Rue Carnot dove ci sono negozi che vendono oro ed argento. Poi cerchiamo un hotel dove io possa stare tranquillo a leccarmi le ferite che sia nel contempo comodo per andare in centro e per arrivare in tempi brevi all'aeroporto. Saluti calorosi e sinceri come se ci conoscessimo da sempre ed i tre ragazzi francesi mi lasciano. Sono ragazzi veramente in gamba e sono veramente felice di averli incontrati. Arrivederci amici miei, a bientòt!

Arrivo in hotel ed anche qui a ricevermi oltre la proprietaria anche una iguana sulla porta della reception, ed una più piccola dentro la modestissima camera con bagno che mi viene assegnata.

Trascorro in Dakar quasi due giorni in attesa del volo per Cabo Verde che è previsto per mercoledì in serata alle 20,30; il tempo lo passo curandomi e stando in mezzo alla gente nei mercati, alle fermate dei pulmini, al porto dove arrivano barche che si reggono con i denti ma stracariche di pesci che vengono venduti seduta stante, puliti, incartati e via: visito anche dei mercati di frutta sempre molto colorati, faccio anche un salto alla sede dell'Unesco per incontrare Corinne l'amica che mi aveva aiutato all'andata ma era impegnata in una conferenza e così ho lasciato un biglietto di ringraziamento e di saluto e sono andato. Dakar ed il Senegal tutto dà una impressione di vivacità sia nel movimento delle persone, nel modo di trattare, di parlare, che nelle mille sfumature di colori e di odori di cui è pieno (il marrone della savana, il verde intenso delle piante tropicali, il verde delle piantagioni di riso, il blu del mare, il bianco delle spiagge, i coloratissimi vestiti indossati dalle sinuose ed eleganti "gazelle" senegalesi con i loro copricapi abbinati, e gli odori dell'eucalipto, di fumo, di pane di mais). È un paese ricco di sfumature variopinte e questo lo si avverte di più provenendo da un paese desertico, pur bellissimo, ma dai colori più stemperati, direi tutte le varianti più tenui dell'ocra.

Si avvicina l'ora della partenza ed un ragazzo che ha lavorato per moltissimi anni a Parigi si ferma a parlare chiedendomi se a Cabo Verde è possibile lavorare con salari decenti visto che lì a Dakar per undici ore di lavoro giornaliero la retribuzione è l'equivalente di trentamila lire lire mensili! Ragazzi sono veramente altre realtà e noi non ci immaginiamo nemmeno lontanamente di quanta gente esiste al mondo che sopravvive.

Lascio il Senegal con il proposito però di ritornarci quanto prima. Decollo e sono a Praia, capitale di Cabo Verde a notte fonda, per un ritardo del volo (cose di normale amministrazione qui in Africa, come normale è non ritrovare a mala, la valigia, al tuo arrivo). Denuncia alle autorità aeroportuali lì presenti, scambio di numeri telefonici di riferimento e pernotto in sala in attesa del prossimo imbarco per l'isola di Sal e da qui per l'isola di Boa Vista. Arrivo in terra bubista (cioè territorio di Boa Vista) giovedì mattina alle ore 9,30. La mia terza maratona ossia il mio viaggio di ritorno dalla Mauritania a casa è durato esattamente sei giorni: l'avventura in terra africana è finita!

I gechi con i loro occhietti neri hanno vigilato sulla mia persona per tutto il tempo che sono stato via, indirizzandomi e controllando che il sentiero che percorrevo fosse quello giusto, quello della fortuna. Fortunato fino in fondo perché sono ritornato felicemente a casa, ho ritrovato i due vecchi gechi "della veranda" con altri due piccoli appena nati a fargli compagnia ed i miei amici Atila e Rosy con un regalo che certo non mi aspettavo: una gattina dal manto branco e cinzento (bianco ed argento), un patuffolino di nome Mauritania che sotto l'apparente calma nasconde la sua naturale indole selvaggia proprio come colui che da ora in poi se ne prenderà cura. "Certo che però due selvaggi africani sotto lo stesso tetto...".

Epilogo e ringraziamenti

Ragazzi, come al solito, a questo punto non mi resta che ringraziarvi per essere sempre così buoni con me nel sorbirvi il solito getto di parole buttate lì in maniera "selvaggia" e un po' alla rinfusa; ringraziare chi ha messo a disposizione questa pagina elettronica ed anche i tre amici che hanno condiviso con me questa esperienza - Amerigo, Riccardo e Filippo - "Ciao ragazzi e ciao soprattutto a te, Faina italiana, sperando che i sentieri delle nostre vite, insieme a quelle di altre persone che hanno la stessa voglia e il medesimo piacere di correre, si incontrino, per poter così percorrere insieme nuove piste chissà magari quelle negli immensi e caldi spazi desertici americani, australiani o addirittura capoverdiani".

Questo è infine il momento di ringraziare coloro i quali hanno permesso alla squadra italiana di partecipare alla "TransMauritanie": Mlp & C srl Carrara; Mla & C snc Carrara; Sgs srl Carrara; Emmemarmi srl Carrara; MArmo Forniture di Grassi Umberto; Marmi Italiani srl Roma; Diet & Fitness Carrara; Nuova Impianti snc Carrara; Mg Imballaggi di Moretti Daniela Carrara; Baicchi Abrasivi srl Carrara; Abrasisa srl Carrara; Tonini Edilizia Massa; SportLife Ressora La Spezia.

Un saluto particolare fatto di vero cuore al presidente dei presidenti, Renato Nari della Polisportiva Castagnara Massa che con lungimiranza ha orientato il proprio team, già da molti anni, verso le corse estreme ossia verso quelle nuove frontiere no-limit a cui l'uomo attuale sente il bisogno di rivolgersi, per misurarsi con se stesso e sentirsi così vivo, forte e libero!

Un altro saluto all'intero gruppo sportivo capoverdiano dell'isola di Boa Vista il Boa Vista Marathon Club che ha permesso al sottoscritto di allenarsi in compagnia di amici come il brasiliano Atila Muradas, i capoverdiani Pinto, Bancha, Tuga, Angelo, Amilcar, Oceano, Josè Carlos, Eder Manoel, Carlos, gli spagnoli Lopes Pedro e Josè e l'italiana Rosy, e tanti altri che si sono alternati in estenuanti lunghi e lunghissimi allenamenti sulle bianche dune del fantastico deserto di Boa Vista, un grande deserto nel cuore dell'Atlantico.

In attesa comunque di poter partecipare e raccontare una nuova avventura su un altro deserto, il Selvaggio africano, nel silenzio che urla, accompagnato dal leggero soffio del caldo vento sahariano che sussurra infinite parole di amore, di pace e di libertà, invia a tutti un sincero ringraziamento ed un saluto di corsa: ate mais logo y buena suerte e che il deserto sia sempre con tutti noi!

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Piergiorgio Scaramelli - Atacama

Piergiorgio Scaramelli - Toscano esperto ultramaratoneta, vive a Boa Vista ed è l’ideatore della “Boa Vista Ultramarathon”, gara in linea di 150km che dal 2000 si svolge sull’isola capoverdiana

 

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2021 - Boa Vista Ultratrail in solitaria Bistari Onlus

 

 

L’Avventura è finita!

 

Volevo ringraziare tutti, indistintamente, per avermi seguito e supportato, con calore e

affetto, lungo tutti 150 km del meraviglioso e suggestivo percorso della @Boa Vista Ultra Trail.

Nel contempo volevo scusarmi per essermi fatto vivo solo dopo 4 giorni dal termine dell’avventura, ma come potete ben immaginare, vista la mia giovane età, i tempi di recupero fisico sono stati un poco lunghi. Sono arrivato piegato in due e per raddrizzarmi mi ci sono voluti 3 giorni di cure e massaggi, e comunque ancora oggi ho un assetto strano tipo “ Torre di Pisa”.

E’ stata emozionante questa 150 km, ed alla partenza, e per molti km, addirittura esaltante, tant’è che mi sono messo a correre più che camminare, come un ragazzino! Forse un po’ troppo veloce. Ma le sensazioni erano buone, le condizioni meteo ideali, di giorno e di notte (una luna quasi piena, brillante e sorridente), ed il terreno mi era familiare.

Momenti difficili si sono alternati ad altri più facili, frazioni dolorose ad altre meno, in questo divenire che è “la legge” delle ultra, l’importante è gestire i momenti e mantenere la testa sempre concentrata nell’obiettivo finale.

 

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Volantino Boavista Ultratrail

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